Ars Bellica

Battaglie In Sintesi

Battaglia dei Salici

377

Gli avversari

Flavio Ricomere o Ricomero (? - 393)

Nel 377 era comes domesticorum dell'imperatore romano Graziano in Gallia, quando venne destinato a condurre i rinforzi per l'esercito orientale dell'imperatore Valente in Tracia, dove erano sconfinati i Visigoti. Combatté nella battaglia dei Salici (377). Quando Valente giunse nella piana di Adrianopoli per affrontate i Visigoti di Fritigerno, Ricomere tentò di convincerlo di non dare battaglia prima dell'arrivo dei rinforzi di Graziano; a seguito della richiesta del capo goto di ostaggi come pegno per la pace, Ricomere si offrì volontario e si mosse con gli altri ostaggi per raggiungere il campo goto. Alcuni reparti dell'esercito romano attaccarono senza attendere gli ordini e la battaglia di Adrianopoli (378) iniziò, sorprendendo Ricomere dietro le linee nemiche. Il generale franco riuscì a salvarsi, ma la battaglia fu disastrosa per i Romani, che persero moltissimi uomini e ufficiali, tra cui Valente stesso. Nel 383 era generale nella porzione orientale dell'impero, col titolo di magister militum per Orientem; l'anno successivo divenne console. Nel 388 venne inviato dall'imperatore Teodosio I contro l'usurpatore Magno Massimo: assieme al nipote Arbogaste e ai generali Promoto e Timasio, lo sconfisse nella battaglia della Sava. Quello stesso anno divenne comes et magister utriusque militiae, comandante supremo dell'esercito orientale, fino alla sua morte, avvenuta nel 393.

Ricomere era interessato alla letteratura, ed era conoscente di retori quali Libanio e Agostino, di letterati come Simmaco e Flaviano; fu Ricomere a far conoscere il retore Eugenio al nipote Arbogaste, il magister militum d'Occidente, che cercava un tutore per l'imperatore Valentiniano II. Dopo la morte di Valentiniano (392), Arbogaste elevò al trono Eugenio: Teodosio I (393) chiese a Ricomere di comandare il contingente di cavalleria dell'esercito mandato a combattere i due ribelli, ma Ricomere morì lungo il viaggio.


Fritigerno (? - 380)

Fritigerno è stato un sovrano visigoto, re dei Visigoti o Tervingi (369-380), fu uno dei principali re-guerrieri germanici che combatté nella guerra gotica (376-382). Le prime fonti che menzionano il nome di Fritigerno vengono dal periodo in cui l'imperatore Romano, Valente, combatté contro i Visigoti tra il 367 e il 369, e al tempo dell'invasione degli Unni (375). In questo periodo i Visigoti si erano divisi in due diversi partiti, uno seguace di Fritigerno e l'altro Atanarico, un condottiero visigoto che era pagano della tradizione mitologica germana, mentre Fritigerno, probabilmente per ottenere maggior credito presso Valente, si era convertito al Cristianesimo, per la precisione al credo ariano (una dottrina, poi dichiarata eretica dal concilio di Nicea, della religione cristiana). Gli Unni, giunti nel frattempo in Europa, avevano sconfitto gli Alani e sottomesso i Goti dell'est o Ostrogoti, cominciarono a esercitare pressione sui confini delle terre abitate dai Visigoti; a questo punto il gruppo di Visigoti guidato da Atanarico, incalzato dagli Unni, si ritirò in Transilvania, dopo aver perso gran parte delle sue ricchezze; questo fatto causò il passaggio di molti Visigoti dal gruppo di Atanarico a quello di Fritigerno, che implorò l'ammissione in territorio romano e riuscì a persuadere Valente a consentire a lui e alle sue genti di attraversare il Danubio e trovare salvezza nella provincia romana della Mesia. Secondo gli accordi, i goti sarebbero stati coscritti nell'esercito romano e a loro sarebbe stata concessa piena cittadinanza, ma in realtà non accadde niente di tutto questo.

Durante l'autunno del 376, mentre i romani controllavano le genti di Fritigerno e Alavivo a stabilirsi nella Mesia, gli Ostrogoti, guidati da Alateo e Safrax, entrarono nelle terre dell'impero dai valichi non presidiati dalle guarnigioni impegnate coi Visigoti; la presenza di troppe persone in un'area ristretta, come la provincia della Mesia, che era stata loro assegnata portò ad una penuria di cibo, che, nel 377, causò una carestia, e dette inizio delle ostilità tra Romani e Goti. Fritigerno chiese aiuto ai governanti della provincia, Lupicino e Massimo, i quali, anziché rispondere all'appello, decisero di approfittare della situazione e vendere provvigioni al mercato nero a prezzi esorbitanti. I Goti furono costretti a vendere i propri bambini come schiavi per sopravvivere e, come era pratica romana per liberarsi di personaggi scomodi, alcuni dei leader goti invitati ad un banchetto organizzato dai romani, furono uccisi mentre altri vennero presi in ostaggio. Probabilmente tra questi ultimi era Alavio (da quel momento non si sa più nulla di lui), mentre Fritigerno riuscì a rientrare al suo accampamento, riunendosi alle sue genti per diventarne leader supremo, che diede inizio alle ostilità contro l'impero romano. Fritigerno guidò i suoi uomini in quella che poi divenne la guerra gotica (376-382). Le truppe di Lupicino vennero completamente sconfitte dopo una battaglia nel 377; questo lasciò un vuoto nella difesa nella regione che permise ai goti di prendere il controllo effettivo della più ricca Tracia. La crisi continuò nel 378 e, il 9 agosto di quell'anno, Fritigerno vendicò la sconfitta subita dalle sue genti alla battaglia di Naisso di 109 anni prima, causando una delle peggiori sconfitte perpetrate ai danni dei romani, ad Adrianopoli, dove l'imperatore Valente venne ucciso. Dopo la clamorosa vittoria sul campo i Goti, sconsigliati da Frigiterno, tentarono inutilmente di conquistare Adrianopoli e poi si voltarono verso Costantinopoli, che non poté essere conquistata per la mancanza di macchine da assedio appropriate. Fritigerno continuò a combattere i romani con alterne fortune per i due anni successivi, venendo riconosciuto dalla maggior parte dei visigoti come re. Quando morì, Atanarico fu riconosciuto come capo da tutti i Visigoti e divenne di fatto il primo re universalmente riconosciuto dalla totalità delle genti visigote, il quale riuscì infine a firmare una pace con l'imperatore Teodosio I.

La genesi

Tra la fine dell'estate e l'inizio d'autunno del 376, decine di migliaia di profughi Goti, cacciati dalle proprie terre dalle invasioni unne, giunsero sul Danubio, elemento di confine dell'Impero romano, chiedendo asilo. Fritigerno e Alavivo, capi dei Tervingi, si appellarono all'imperatore romano Valente, chiedendo che alla propria gente venisse permesso di stabilirsi sulla sponda meridionale del Danubio: il grande fiume infatti li avrebbe protetti dagli Unni, che non avevano l'equipaggiamento necessario per attraversarlo in forze. L'imperatore concesse l'asilo in termini estremamente favorevoli, permettendo che i Goti attraversassero il Danubio nei pressi di Durostorum (moderna Silistra, Bulgaria), in Mesia, una strada che collegava direttamente al quartier generale operazionale romano di Marcianopoli. Valente aveva promesso ai Goti terre da coltivare, razioni di grano e l'inclusione nell'esercito romano con la funzione di foederati: l'imperatore probabilmente accettò di accogliere le popolazioni barbare all'interno del limes con lo scopo di rafforzare il proprio esercito e aumentare gli introiti del fisco; ma la presenza di un popoloso stanziamento in un'area ristretta causò una penuria di viveri tra i Goti, tale che l'Impero non fu in grado di contrastarla né con i rifornimenti di viveri né con le terre da coltivare promesse antecedentemente. Così, quando ai goti affamati fu negato l'ingresso alla città di Marcianopolis, quest'ultimi si rivoltarono, annichilendo un esercito romano locale e cominciando a depredare la regione. Il compito di contrastare l'armata visigota che stava devastando la regione fu affidato, dall'imperatore Valente, al generale Ricomero, che decise di impattare il nemico in una località chiamata ad Salices ("ai Salici"), probabilmente a circa 15 km da Marcianopoli (la moderna Devnya, in Bulgaria).

La battaglia

Ricomero, postosi per comune consenso alla testa di tutti, si unì con Profuturo e con Traiano accampati vicino alla città di Salices, dove non molto lontano incontrarono un volgo innumerevole di barbari, i quali, avendo collocati i molti dei loro carri in figura di un cerchio, come se fossero in uno spazio murato, oziosamente godevano la ricchezza delle loro prede. Quivi i condottieri romani nutrendo speranza di buoni successi, e disposti per conseguente a tentare qualche impresa gloriosa ogni qualvolta la sorte presentasse loro il buon destro, stavano attentamente osservando ciò che facevano i Goti. E pensavano che se mai tramutassero altrove il loro campo, cosa che solevano fare spesso, potressero assalirne da tergo le ultime file, e così ritoglier loro gran parte del bottino di cui s'erano impadroniti. Ma i nemici accortisi di questo divisamento, o forse essendone informati dalle relazioni di alcuni de' nostri fuggiaschi, per colpa de' quali nessuna cosa poteva rimanere occultata, stettero fermi per molto tempo in quel luogo. Finalmente poi, intimoriti dall'esercito che si vedevano di fronte, e dalla persuasione che potessero arrivare altre milizie, mandarono fuori un ordine quale si usava presso di loro, richiamarono tutte le bande di armati che si erano diffuse per predare i luoghi vicini: le quali, avendo ricevuto il comando dei loro capi, subitamente, si ricondussero volando al già menzionato recinto di carri, dando così, ai loro compagni, il coraggio per osare maggiori imprese. Dopo d'allora pertanto non v'ebbe se non qualche breve momento di tregua fra le due parti. Perocché essendo rientrati nel campo coloro che la necessità aveva indotti ad uscire, tutta quella moltitudine rinchiusa nello steccato dei carri immanemente fremeva, e seguitando l'impeto de' truculenti loro animi ardevano di venire alle ultime prove, né i capi della nazione ch'erano quivi presenti si mostravano d'animo diverso. Ma perché questa risoluzione fu presa in sul calar del sole, e la notte sopravvegnente li costringeva alla quiete, sebbene di mala voglia e con dolore, si ristorarono durante quel riposo di cibo ma non dormirono molto. D'altra, i Romani, avendo avuta notizia di queste cose, vegliarono anch'essi, stando in sospetto dei nemici e degli audaci loro condottieri, come di belve rabbiose: ma sebbene l'evento apparisse dubbioso per esser essi molto inferiori di numero, nondimeno con animo impavido se l'aspettavan propizio, confidando nella giustizia della loro causa. Appena cominciò ad albeggiare, dato dall'una e dall'altra parte il segno d'impugnar l'armi, i barbari pronunciarono prima' i consueti loro reciprorci giuramenti, poscia tentarono di occupare alcuni luoghi elevati, dai quali potevano poi, a guisa di ruote, calare e con maggior impeto strascinar seco quanti si attraversassero a loro. Ma i nostri avendo ciò veduto si affrettarono tutti, ciascuno al proprio manipolo, e quivi si tennero fermi: nessuno vagava od usciva della sua schiera per spingersi innanzi. Quando pertanto i due eserciti, procedendo cautamente, trovaronsi immobili a fronte l'uno dell'altro, i soldati cominciarono per reciproca rabbia a provocarsi con obliqui sguardi. E i Romani, gridando da tutte parti con voce marziale che, debole da principio, va poi sempre crescendo fino a quel romore chiamato con voce nazionale barrito, s'inanimivano sopra le loro forze, mentre i barbari con rozze voci gridavan le lodi dei loro maggiori, e in mezzo a quel vano e dissonante strepito cominciarono a tentarsi leggiere zuffe. E già, dopo essersi gittati da lungi i verrettoni ed altre armi consimili, venivano minacciosamente alle prese, e congiunti gli scudi a guisa di testuggini, combattevano piede contre piede.

I barbari che potevano riempir facilmente ogni loro vuoto, erano agili assai, scagliarono contro i nostri grosse clave indurite al fuoco, e piantando le loro spade nel petto a coloro che resistevano più fortemente, ruppero il corno sinistro ma un fortissimo corpo di milizie sussidiarie, avendolo veduto piegare, irruppe gagliardamente da un sito ivi vicino. Purtroppo coloro dei nostri che avevano già la morte imminente sul capo, non furono salvati. Fervendo così per molte stragi la mischia, e precipitandosi ognuno dove i combattenti eran più densi, cadevano sotto le frecce volanti da tutte le parti a guisa di grandine, e sotto le spade. I soldati a cavallo poi, inseguivano per ogni verso i fuggenti, e ne ferivano a grandi colpi, le anche e le terga, e i fanti, anch'essi dall'altra parte, tagliavano le giunture a quanti trovavan caduti o tardati dalla paura. Così era pieno per tutto dei corpi degli uccisi, fra i quali alcuni giacevano ancor semivivi e con una vana speranza di potersi salvare, altri erano percossi dalle pietre scagliate colle fionde, o trafitti da frecce armate di ferro, vedevansi le teste di alcuni tagliate pel mezzo da un fendente penzolare con grande orrore di qua e di là sulle spalle. E non essendo per anco stancati dall'ostinato combattere, con uguale fortuna da tutte e due le parti si danneggiavano, né alcuno rimetteva punto dell'innato suo furore, perché il coraggio somministrava al corpo le forze. Ma finalmente, il giorno che diede luogo alla notte divise quel mortale combattimento, e ritraendosi tutti alla rinfusa dove ciascuno poteva, quanti sopravvissero a quella fazione si ricondussero afflitti più di prima alle tende. Si diede quindi sepoltura, quale il luogo ed il tempo la comportavano, ad alcuni principali fra i morti; e i cadaveri di tutti gli altri se li consumarono gli augelli rapaci, soliti allora a pascersi di umane carni, come attestano i campi che biancheggian tuttora dell'ossa. Del resto è ben noto che i romani, venuti alle prese con una moltitudine in numero molto maggiore di loro, soffersero grave perdita, ma nondimeno recarono lagrimevoli danni a quella barbara plebe.

Le conseguenze

Finita così luttuosamente quella battaglia, i nostri si ridussero ai vicini recessi di Marcianopoli. I Goti rientrati spontaneamente nel cerchio dei loro carri, non osarono più uscirne e nemmanco lasciarsi vedere per ben sette giorni, d'onde i nostri soldati colsero l'opportunità di chiudere con alti baluardi nelle angustie Emimontane alcune altre immense caterve di barbari. E speravano che quella dannosa moltitudine di nemici, stretta così fra l'Istro e que luoghi deserti, né trovando alcun sito da uscirne, vi perirebbe di fame; dacché tutte le cose necessarie al vivere erano chiuse in città fortificate, alle quali i Goti non tentaron nè pure di mettere assedio, per essere affatto ignoranti di queste arti della guerra. Ciò fatto Ricomero se n'andò nuovamente nelle Gallie, per raccogliervi nuove milizie contro quelle maggiori battaglie che prevedeva di dover sostenere. Queste cose facevansi essendo console Graziano (per la quarta volta) con Merobaude, e declinando ormai l'anno verso l'autunno.